Il bambino e la guerra

Ogni tanto capita che qualcuno, vedendo il mio doppio cognome, abbia un’espressione strana e dica qualcosa. Io sono nato con un solo cognome e il secondo (Albasini) è stato aggiunto una ventina di anni fa per iniziativa di mio padre Giovanni. Qui la sua storia di bambino durante la prima Guerra e il perché di questo secondo cognome.

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Il bambino e la Guerra 

Il bambino sollevò la testa dal quaderno visibilmente soddisfatto e lo richiuse con cura evitando di piegare agli angoli qualche foglio. Era un grosso quaderno con le pagine rigate e con una copertina rigida lucida nera. Sulla faccia interna del frontespizio vi era una tavola pitagorica.

La mamma lo aveva fatto comprare direttamente alla cartiera di Crusinallo, per economia, dal capo officina dello zio avvocato, che abitava in quel paese vicino ad Omegna, cittadina sul Lago d’Orta.

Era l’unico quaderno degli scolari della seconda classe elementare in quel secondo anno di guerra, e conteneva i dettati, i temini, i problemini di aritmetica, gli esercizi di calligrafia. In fondo al quaderno, poi, vi erano i compiti delle vacanze che erano stati elencati alla fine dell’anno scolastico il 15 giugno 1916.

Il 28 giugno di quell’anno il bambino aveva compiuto 8 anni ed era orfano del padre da un anno.

Dopo aver chiuso il quaderno il bambino lo ripose nella cartella di tela e spostò il tavolino, su cui aveva scritto i compiti, dalla finestra al centro della camera. Questa era una grande stanza con un grande armadio bianco per la biancheria e con due letti in cui dormivano il bambino e il fratello maggiore, di 10 anni, che, in quel momento, era a ripetizione perché a scuola non era molto bravo. La camera era chiamata “camera delle donne”: prima della morte del nonno, quando tutto andava bene, ci dormivano le donne di servizio.

Il nome era rimasto anche se le donne non c’erano più. Alla mamma non piaceva quel nome, preferiva “stanzone”.

Era l’ultimo locale dell’appartamento della nonna Margherita Albasini che vi abitava con i due figli non sposati: lo zio Giuseppe avvocato e la zia Anita crocerossina, entrambi sulla trentina.

L’appartamento era al primo piano di una grande casa fatta costruire dal nonno Achille Albasini nel 1880 per lavorare e abitare.

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La casa oggi (vialeAzari 60, Pallanza)

Il giardino che la circondava si affacciava sul viale Principe Umberto: un grande viale alberato che si allungava dal termine della Ruga, la via principale di Pallanza, alla Madonna di Campagna e di là fino al Ponte del Plusc per quasi due chilometri. In piena estate il viale era una galleria verde molto fresca sotto le due file di ippocastani: c’erano due vialetti laterali per i pedoni e una carreggiata centrale. Non c’era molto traffico: qualche carro e gli operai che andavano in bicicletta al cotonificio.

Quando i nonni erano andati ad abitare nella nuova casa avevano chiamato il fotografo e si erano fatti fare la foto che adesso era appesa al muro.

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Achille Albasini con la moglie Margherita e i figli

Guardando la foto il bambino si domandò come sempre:
«chissà perché la zia Anita è così triste?»

Guardava spesso la foto: vedeva i nonni e gli zii tutti sicuri e si sentiva rinfrancato a vederli così.

Il bambino passò la mano sui capelli tagliati cortissimi a spazzola, “all’Umberto”, come si diceva allora e, passando dal terrazzo su cui si affacciava la camera con una porta finestra, entrò nel corridoio per trovare la mamma che di solito stava nel tinello attiguo alla cucina, con la nonna e i due figli più piccoli, Anita di sei anni e il Pino di tre.

Lì non c’era nessuno ma nel corridoio si sentivano voci che provenivano dal salotto. Al bambino piaceva incontrare persone nuove ma gli dava fastidio avere addosso il grembiulino come le femmine. Se lo tolse in fretta ed entrò nel salotto. La mamma e i fratelli erano lì insieme con la nonna e un signore calvo con due baffi neri a spazzola che non aveva mai visto prima. La mamma gli sorrise: «Saluta questo signore. È il signor Giovanni Piatti, il tuo zio svizzero di Locarno: si chiama Giovanni come te». Il signore gli diede la mano sorridendo: «So che sei molto buono e a scuola vai molto bene. Se la mamma è d’accordo, oggi ti porterò in battello a Locarno a conoscere tua zia Lina Albasini». La mamma lo interruppe: «Nanni deve finire i compiti delle vacanze prima dell’inizio della scuola che avverrà il 15 ottobre e oggi è già il primo». «Ma io i compiti li ho già fatti» disse il bambino. «Allora benissimo, partiremo alle due del pomeriggio» Il bambino vide che allo zio brillavano gli occhi mentre diceva queste parole.

La nonna era contenta che si fosse trovata una soluzione: «Sono felice che tu abbia fatto da solo il tuo dovere di scuola e che tu possa conoscere la zia Lina di Locarno: Lina è la mia figlia maggiore ma purtroppo non ha figli e sarà felicissima di conoscere il Nannino». La mamma confermò le parole della nonna e chiese: «Quando ritornerai a Pallanza Giovanni?». Lo zio diventò serio: «Tra una settimana: l’8 ottobre devo essere a Roma per riferire alla Presidenza della Croce Rossa Italiana il risultato della mia visita ai campi di prigionia austriaci, come Presidente della Croce Rossa del Canton Ticino. Così gli farò vedere cos’è la razione giornaliera di pane che gli Austriaci passano ai soldati italiani prigionieri».

Mentre parlava, trasse da una borsa un pezzo di pane scuro e lo mostrò a tutti. Era un pezzo di cosidetto “pane” lungo 10 centimetri e largo altrettanto. Dopo averlo mostrato alla nonna e alla mamma lo passò al bambino che lo toccò: gli sembrava un pezzo di legno con odore di saponetta. Lo zio disse: «non è pane di farina di grano, o di granoturco, ma è solo fatto con farina di gusci di grano con aggiunta di segatura di legno. È immangiabile e farò una protesta al Tribunale dell’Aja» quindi ripose il pezzo nella borsa.

Il bambino pensò ai soldati prigionieri: a scuola aveva sentito che erano tantissimi. E pensò che era fortunato. Anche lui aveva fame: la mamma al mattino gli dava un pezzetto di pane scuro più grosso di quello dei soldati prigionieri. Quel pane doveva servire per tutto il giorno, ma alle 9 era già finito.

Per fortuna non mancava il latte perché non lontano dalla casa c’era una stalla con 3 mucche non ancora requisite e il suo proprietario, molto, affezionato alla nonna e alla sua famiglia, le riservava 2 litri di latte al giorno. Poi c’erano le castagne secche e la farina di castagne che proveniva dai boschi di castani che coprivano i monti e le valli vicine a Pallanza. Anche la farina di granturco non mancava perché il granturco era coltivato in tutta l’Ossola e quindi quasi tutti i giorni a casa si mangiava la polenta. Era proprio più fortunato dei soldati.

Anche quel giorno a tavola si mangiò la polenta, però con il formaggio svizzero portato dallo zio.

Attorno al tavolo in sala da pranzo erano in 9 e, alla fine della colazione, dopo le mele del giardino tutti mangiarono il cioccolato svizzero dello zio. Quindi i grandi bevvero il caffé di cicoria versato nei piattini per farlo raffreddare. Il poco caffé vero era portato da un vecchio amico dei nonni che abitava a Milano, e veniva ogni quindici giorni a trovare la nonna. Questo caffé era riservato alla nonna.

Lo zio Giovanni aveva apprezzato molto la polenta: «a Locarno non la mangiamo mai». Il bambino era contento perché era stato lui a girare la polenta stando in piedi su una sedia.

Gli piaceva molto stare in cucina perché faceva caldo: c’era la cucina economica sempre accesa. In questo modo si riscaldava anche il tinello separato dalla cucina da una tramezza di legno fatta costruire dopo la morte del nonno.

Nell’appartamento non vi erano altre stufe all’infuori di un caminetto in sala da pranzo e di uno in salotto. I caminetti venivano accesi quando vi era qualche ospite, cosa che succedeva di rado. Quel giorno erano accesi in onore dello zio svizzero dato il tempo piovoso e freddo. Per tutto l’inverno precedente la casa era sempre stata gelida e tutti si erano difesi dal freddo con i maglioni fatti dalla nonna. Per fortuna, prima della guerra, la nonna aveva fatto provvista di lana e ora poteva lavorare a maglia tutto il giorno: in questo modo stava occupata anche se immersa in pensieri tristi. Ogni tanto il bambino la trovava che continuava a fare andare il filo tra i ferri mentre guardava il quadro del nonno appeso di fronte in sala.

Anche a scuola faceva freddo: l’unico riscaldamento era una stufa a legna visto che l’impianto centrale era spento per mancanza di carbone. La legna arrivava in tronchi lunghi circa 3 metri su un carro piatto a 4 ruote trainato da 2 vecchi cavalli che si fermava in via Madonnina sul retro della casa davanti a un grande cancello di ferro. Provvedevano allo scarico di tronchi il vecchio carrettiere aiutato da un altro vecchio e dal Tiberio: l’uomo di fatica della casa da molti anni, dal tempo del nonno. Uomini e cavalli giovanio non ce n’erano più a Pallanza da quando era iniziata la guerra.

Il Tiberio era troppo vecchio per andare in guerra e così era rimasto: alla mattina e alla sera apriva e chiudeva la portina del giardino sul viale, il portone e la portina sul retro da cui entravano gli operai. Puliva anche le scale e la fabbrica, teneva in ordine il giardino e l’orto. L’unica cosa che non faceva più era accendere la caldaia a legna che riscaldava i saloni del nastrificio, condizione necessaria per la lavorazione della seta. Da quando era iniziata la guerra la fabbrica aveva ridotto il lavoro di nastrificio e aveva incominciato a produrre bossoli di ottone per i cannoni.

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l’officina della fabbrica nei seminterrati della casa (viale Azari 60)

Il Tiberio era molto forte: da solo prelevava i tronchi accatastati nel cortile e li tagliava. Cominciava a fare un taglio con l’ascia in una estremità del tronco e poi con cunei di ferro e colpi di mazza allungava e allargava la fessura fino a spaccare il tronco in 2 parti per lungo. Ripeteva l’operazione su ognuno dei 2 pezzi fino a ricavare dei listoni larghi circa 10 centimetri. Questi poi venivano tagliati con la sega su un cavalletto fino ad essere adatti a passare nello sportello della cucina economica. Ogni mattino poi il Tiberio portava una bracciata di pezzi di legno nella cucina della nonna e li metteva in un cassone bianco di legno con il coperchio a cerniera e portava via la cenere dalla cucina.

I pezzi di legno segati erano accatastati nel cortile in cui gli operai si trattenevano a fumare nei momenti di sosta del pomeriggio. Il cortile sul retro della casa si estendeva per tutta la sua lunghezza: ad una estremità c’era un piccolo fabbricato in cui si tenevano gli attrezzi da giardinaggio e dove le donne di servizio facevano bollire acqua e cenere per lavare la biancheria dato che mancava il sapone. Di fianco c’era il pollaio. Fino all’anno prima ci abitavano molte galline e un gallo: la mamma dava ai bambini per merenda l’uovo sbattuto con lo zucchero. Poi dopo un paio di mesi di guerra avevano incominciato a mangiare le galline e pian piano le avevano mangiate tutte perché la carne mancava.

Davanti alla casa si estendeva il giardino: un grande prato, circondato da un vialetto inghiaiato, con al centro un albero di magnolia che aveva fatto piantare il nonnno Achille qualche anno prima di morire. Ai lati del cancello con la doppia A in cima (Achille Albasini) vi erano 2 tigli e più lontano il bersaux delle rose con un tavolo di pietra e due panchine dove i nonni con i figli mangiavano le sere d’estate. Dalla scala partiva un rosaio rampicante che saliva fino al balcone dei nonni e d’estate riparava dal sole l’ingresso della casa.

Per arrivare all’ingresso vi era una scalinata di granito rosa di Baveno a 2 rampe chiamata scalea. Sulla scala la nonna Margherita aveva voluto fare una fotografia con il primo nipote: si chiamava Achille in memoria del nonno.

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Da sinistra: la nonna con in braccio Achille (il fratello maggiore del bambino all’età di un anno), la figlia maggiore Lina, Ambrosina (mamma del bambino) e la figlia minore Anita che tiene il ritratto del nonno.

Sotto la scalea vi era una vasca che veniva riempita con l’acqua del pozzo. Questo si trovava nel bordo superiore del prato e forniva un’acqua pura e freschissima. Il pozzo era stato utilizzato per quasi 30 anni dal 1880 anno di costruzione della casa al 1908 anno di inaugurazione del nuovo acquedotto con tubi di eternit che portava a Pallanza l’acqua delle sorgenti situate sopra il paese di Miazzina sulla montagna. Dopo il 1908 era rimasto in funzione e in tutte le cucine della casa, sprovvista di vasche da bagno, vi erano due rubinetti uno per l’acqua del pozzo e l’altro per l’acqua dell’acquedotto a pagamento. Il vecchio signor Italo Ciana che veniva ogni tanto da Milano a trovare i nonni chiedeva sempre un bicchiere di acqua del pozzo.

Per mantenerlo in funzione ai primi del ‘900 era stato installato nel pozzo una pompa elettrica. Le poche ville costruite all’inizio del secolo lungo il viale Principe Umberto erano tutte provviste di pozzo. Anche di fronte alla casa in cui abitava, il bambino leggeva spesso una scritta:

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sulla facciata di una piccola casa di proprietà di amiche della nonna.

Anche l’acqua del lago in quegli anni era potabile. Il bambino aveva visto come facevano i pescatori: legavano una corda ad una bottiglia di vetro vuota chiusa con un turacciolo e appesantita da una pietra e la lasciavano scendere per una decina di metri. Con la pressione il turacciolo veniva spinto all’interno e la bottiglia si riempiva dell’acqua pulita. Bastava recuperare la corda in fretta e c’era acqua da bere.

Al bambino piaceva molto anche andare nell’orto: lì trovava piante di pere, prugne, albicocche, fichi e nespole del Giappone. E, in stagione, fragole, ribes rosso e bianco, uva spina e qualche vite di uva bianca e rossa. In estate c’erano poi piante di piselli, fagioli, pomodori, cavoli, zucchine, ecc. In fondo all’orto vi era la stalla in cui il nonno aveva tenuto il cavallo per il calesse ed anche una mucca per avere latte fresco quando gli zii erano bambini.

Nella casa vi era il nastrificio “eredi Achille Albasini” creato dal nonno Achille usando il piano seminterrato e il primo piano della grande casa. Il primo piano era diviso in due grandi saloni. In uno vi era il motore elettrico che con le trasmissioni fissate ai muri perimetrali muoveva 40 telai e nell’altro diviso per lungo da un corridoio a vetrate vi erano verso il cortile gli incannatoi in cui la seta veniva avvolta sui rocchetti di legno e da un gruppo di aspi su cui venivano avvolti i nastri dopo il controllo fatto da un gruppo di operaie. La parte del salone verso il giardino conteneva un lungo bancone di legno su cui venivano confezionate le scatole di nastri per la spedizione ai clienti e che aveva sotto gli armadietti per la conservazione dei nastri. Inoltre vi erano due scrivanie per l’impiegato tecnico e l’impiegato amministrativo.

Nei due saloni il pavimento aveva delle bocchette e griglie da cui usciva l’aria calda prodotta dal calorifero a legna situato in cantina e provvisto di un canaletto di terracotta per la distribuzione dell’aria calda che correva sotto il plafone del corridoio delle cantine. L’impianto di aria calda era curato dal Tiberio. Nel secondo salone verso il giardino vi era lo studio dello zio ragioniere che per conto della nonna e dei fratelli dirigeva il nastrificio dopo la morte del nonno.

Questo era quanto il bambino aveva visto o sentito dopo il suo arrivo a Pallanza alle 5 del pomeriggio del 24 maggio 1915.

2. L’alpino ferito

Il 1° ottobre 1916 piovigginò tutta la mattina e smise verso mezzogiorno ma il cielo restò nuvoloso. Alla una e mezzo del pomeriggio dopo aver baciato la mamma, la nonna, gli zii e i fratelli, il bambino, tenuto per mano dallo zio e con una piccola borsa nell’altra mano attraversò la portina del giardino e uscì sul viale Principe Umberto. Data l’ora il viale era deserto. Fra una pianta e l’altra vi erano mucchi di pietrisco, preparato dagli spaccapietre, tutti uomini anziani, e destinato ad essere sparso prima dell’inverno sulla carreggiata centrale. Arrivati in fondo al viale zio e nipote attraversarono la piccola piazza del teatro e imboccarono la Ruga, la via principale di Pallanza con tanti negozi. Arrivati nella Piazza del Municipio in riva al lago si avviarono vero l’imbarcadero che era deserto. Poco lontano vicino al Viale delle Magnolie vi era il tram che collegava Pallanza con la stazione ferroviaria di Fondotoce.

Il battellotto di turno era un uomo anziano che abitava a Pallanza e conosceva la nonna e tutta la famiglia e riconobbe il bambino: «Albasini dove vai di bello?». Rispose lo zio: «Viene con me a Locarno a conoscere la zia che è mia moglie».

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Il matrimonio della zia Lina con lo zio svizzero Giovanni Piatti. La mamma del bambino è la seconda a sinistra. Il papà Tommaso de Francesco è il secondo da destra.

Il battellotto, capito che lo zio era svizzero sospirò: «Beati gli svizzeri che non hanno la guerra! Qui non sappiamo come e quando finirà. Speriamo bene». Poi fece i biglietti.

Alle 2 giunse il battello. Era tutto bianco e con il nome Sempione scritto in blu sui fianchi. Il bambino lo aveva già visto ma non vi era mai salito. Vi erano sul lago Maggiore altri tre battelli a ruota: Lombardia, Piemonte e Italia. Il bambino li aveva visti altre volte nei mesi di giugno e luglio dell’anno precedente quando era ancora in vacanza e la zia lo portava a passeggio sul lungolago con il fratello maggiore. I battelli erano l’unico mezzo di locomozione sul lago, anche nella parte svizzera perché non vi erano ancora le automobili e neppure le biciclette a motore. Tutti andavano a piedi o in bicicletta; solo nei paesi più importanti vi era una carrozza in attesa presso l’imbarcadero.

Il battello si arrestò a pochi metri dal pontile e due marinai lo assicurarono ai pali che uscivano dall’acqua ai lati del pontile. Questi pali erano provvisti di grossi ganci su cui i marinai avevano gettato grosse funi legate al battello. Poi un marinaio dal battello lanciò una fune con un occhiello e il battellotto l’afferrò al volo e passò l’occhiello su un gancio che usciva dalla testata della passerella che si trovava sul pontile. Il marinaio tirò la fune finché la passerella si appoggiò al ponte del battello. Scesero due sole persone: una vecchia e un soldato alpino con un braccio fasciato appeso al collo da un grande fazzoletto nero. Sull’altra spalla aveva una mantellina arrotolata e un tascapane.

Lo zio si avvicinò e la vecchia gli disse che andava all’ospedale di Pallanza a trovare una nipote che vi era ricoverata. L’alpino raccontò di essere stato ferito sull’Adamello e di essere diretto a Trobaso, un paese vicino a Pallanza dove aveva la famiglia. Salutati entrambi lo zio salì sul battello e il bambino lo seguì. Sul battello non c’era nessun altro viaggiatore.

Anche i battelli giravano poco. Solo un battello al giorno partiva da Arona e toccando tutti i paesi del lago finiva a Locarno. Il carbone era finito nell’autunno dell’anno precedente e tutti i battelli dovevano usare solo legna per le caldaie. I depositi di legna si trovavano a Locarno e nei paesi delle vallate come Intra e Cannobio. Sui battelli vi era solo personale anziano: tutto i giovani erano stati richiamati alle armi.

Il bambino prima di salire sulla passerella aveva salutato l’alpino che gli aveva risposto sorridendo. Il bambino salutava sempre i soldati che passavano da Pallanza in licenza di convalescenza dopo che aveva assistito con la mamma all’arrivo di un treno ospedale qualche mese prima: in quell’occasione la gente era scesa dalle valli per vedere l’arrivo dei feriti che venivano trasportati in barella nel vecchio ospedale Castelli e nell’ospedale approntato in Castagnola in un vecchio convento in disuso. Tutti gli ospedali dell’Italia settentrionale e le scuole requisite come ospedale erano pieni di feriti: le battaglie sull’Isonzo si susseguivano da un anno con perdite ingenti di morti feriti e dispersi. Avevano solo conseguito la conquista di Gorizia.

3. Il battello: i ricordi

Giunto nell’interno del battello il bambino trovò una grande apertura nel pavimento circondata da una ringhiera di tubi lucidi. In basso si vedevano grandi bracci metallici lucenti. Si udì un campanello e i bracci si mossero e il bambino vide che essi erano mossi da lunghe aste metalliche che uscivano da 3 cilindri: due grandi e una in mezzo più piccola.

Lo zio si era accorto che il bambino osservava attentamente la macchina in movimento e gli spiegò che le aste erano parte degli stantuffi che si muovevano nei cilindri spinti dal vapore e che questo era prodotto dalla caldaia sotto cui ardeva il fuoco alimentato dai due fuochisti. I bracci che giravano trasformavano il moto rettilineo in modo rotativo che faceva girare le ruote. Aggiunse che le ruote rappresentavano l’inverso delle ruote dei mulini ad acqua che si vedevano ancora in montagna. Agivano sull’acqua spingendo il battello.

Quindi andò nel salone a fumare e il bambino restò a guardare la macchina assorto nei suoi pensieri. Rivide l’alpino ferito e ripensò a cosa si diceva tra la gente, in quel principio di autunno. I feriti in licenza di convalescenza avevano sparso la voce che i soldati erano scoraggiati per le perdite subite (parlavano di 60.000 tra morti feriti e dispersi per ogni spallata come chiamavano le battaglie dell’Isonzo) e per l’avvicinarsi del secondo inverno di guerra nelle trincee senza licenze. Si diceva che i soldati nelle trincee cantavano una canzonetta che diceva:

«Il general Cadorna ha scritto alla Regina
se vuoi veder Trieste ti mando una cartolina».

Pensò anche al padre morto per la guerra e cercò di vederlo nei suoi ricordi più lontani. Lo rivide a Bergamo in giacca da camera mentre in ginocchio sul pavimento giocava a cavalluccio con il fratello maggiore, di 7 anni o quando gli insegnava a sparare con una pistola ad aria compressa contro il grande quadro del bisnonno facendo arrabbiare la mamma. Il papà era un bell’uomo alto e snello con baffi e barba biondi e occhi azzurri molto chiari. Il bambino si ricordava di quando il papà lo teneva sulle ginocchia, cantandogli una filastrocca:

«Fra Martino aveva un gallo
bianco rosso verde e giallo
e per farlo cantar bene
lo trattava a latte e miele»

Quando pensava al papà e a quella filastrocca gli veniva sempre da piangere. E cercava di scacciare le lacrime pensando alla mamma. All’inizio funzionava ma poi la mamma gli veniva in mente insieme al papà e si sentiva di nuovo sul punto di piangere.

Il papà era molto innamorato della mamma e lei di lui.

lo dicevano Maria, la donna di servizio di Perugia da 6 anni con la famiglia del papà, e l’attendente, un giovane soldato piemontese con baffi castani che il papà aveva trovato nel Reggimento di Fanteria di stanza a Bergamo. Il papà allora era capitano e comandava una compagnia.

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Il papà del bambino, capitano Tommaso de Francesco in sella a Derna

A Bergamo nel mese di marzo del 1913 era nato un maschietto che faceva la felicità della sorellina di 3 anni che giocava col piccolino come con una bambola.

I ricordi di quel periodo erano come una favola: la mamma era felice e lo diceva tutti i giorni. Alla sera la mamma e i bambini andavano a dare il bacio della buona notte al papà che andava a letto presto in una alcova chiusa da tende e molto silenziosa perché aveva il sonno molto leggero.

I giorni trascorrevano sereni con il papà diviso tra i suoi soldati e la famiglia e la mamma dedicata all’allattamento del fratellino neonato e alla gestione della casa. Il bambino ricordava che l’attendente aiutava la donna di servizio Maria ad asciugare le posate e i piatti e tutti i pomeriggi portava lui e il fratello a spasso sulle Mura come si chiamava il viale alberato che conduceva da Bergamo alta, dove la famiglia abitava in una vecchia casa, a Bergamo Bassa, dove c’era la piazza d’armi.

Il bambino ricordava un giorno di Carnevale quando era andato con l’attendente e il papà a vedere il corteo delle maschere sulle Mura. Il papà teneva in braccio la figlioletta Anita di cui era innamorato e l’attendente teneva per mano il bambino e il fratello Achille.

Del periodo bergamasco il bambino non ricordava altro anche si sforzava sempre di farsi venire in mente qualcosa di quando il papà era vivo e felice con la mamma.

4. Il Natale a Bra

Il bambino si rivide a Bra dove il papà era stato trasferito presso il 73° Reggimento di fanteria per il periodo di comando per la nomina a capitano

Rivide la locanda in cui la famiglia aveva soggiornato per una settimana mentre l’attendente nativo di Bra cercava una casa. La ricerca era andata bene. La casa nuova era piaciuta molto al papà e alla mamma: era una villetta a due piani con una balconata ornata da una glicine fiorita e giardino, davanti a un grande prato che si estendeva fino a un convento di suore famoso in tutto il Piemonte perché sul sagrato della sua chiesa vi era un biancospino che fioriva a Natale.

La casa aveva le finestre di facciata verso il prato e le finestre interne verso il giardino. Questo era circondato da un alto muro di cinta e al centro aveva una vasca con la fontana e i pesci rossi. Tutti erano contenti.

Bra era una bella cittadina ai piedi di una collina. C’era la scuola elementare, l’asilo e una grande caserma per il reggimento di fanteria del papà. A due chilometri dalla città vi era una grande piazza d’armi con mura e fossati per le esercitazioni.

Era la metà di aprile del 1914 quando la famiglia entrò nella nuova casa. Dopo pochi giorni tutti i bambini si ammalarono di morbillo e da Pallanza chiamata dalla mamma, per posta, giunse la zia Anita per curarli.

Della zia Anita il bambino ricordava solo una passeggiata con lei e col fratello maggiore, durante la convalescenza nei dintorni di Bra. La zia aveva un abito bianco, un cappellino bianco di paglia con le ciliege finte e il velo e anche un ombrellino bianco per ripararsi dal sole. Si fermarono sul bordo di un ruscello all’ombra dei gelsi e dei salici che lo costeggiavano. Sul fondo del ruscello dall’acqua limpida si vedevano sassi colorati e nell’aria volavano molte libellule. Il bambino guardava tutto ciò mentre il fratello cercava i pesci che non c’erano.

Ai primi di maggio di quell’anno la mamma portò il bambino al convento delle suore che avevano una scuola elementare privata e lo iscrisse alla prima classe elementare perché in giugno il bambino avrebbe compiuto 6 anni. Il giorno dopo il bambino andò a scuola per la prima volta accompagnato dal Carlo. In classe c’erano una dozzina di bambini e bambine e la maestra si chiamava Suor Margherita: lo stesso nome della nonna. Essa insegnava a scrivere ai bambini in un modo nuovo in uso in Germania: la penna veniva tenuta tra l’indice e il medio anziché tra il pollice e l’indice. Ne risultava una calligrafia verticale appuntita. Quando il bambino, che aveva imparato subito a scrivere in quel modo, scriveva senza errori il dettato Suor Margherita gli donava un grosso confetto rosa.

Alla fine di maggio la mamma seppe che le Suore facevano la Prima Comunione ai bambini della prima elementare e cominciarono le lezioni di catechismo. Un pomeriggio Suor Margherita portò in classe le ostie e insegnò ai bambini a farle sciogliere in bocca senza masticarle. Disse anche ai bambini che la Comunione doveva essere fatta a digiuno e quindi non bisognava bere neppure un goccio d’acqua. Il bambino restò molto impressionato da questi insegnamenti e si ripromise di osservarli sempre.

Un giorno la suora non venne a scuola e la mamma condusse il bambino a trovarla perché era ammalata. La trovarono a letto e quando si alzò nel letto a sedere il bambino notò che era completamente senza capelli.

Giunto il giorno della Comunione la mamma vestì il bambino e il fratello maggiore con vestiti bianchi alla marinara  con uno stemma sulla manica sinistra e con il papà li condusse alla Chiesa delle suore. Terminata la cerimonia alla quale aveva assistito molta gente, la mamma e il papà condussero i bambini in una pasticceria a prendere la cioccolata con le paste. Dopo andarono a casa e la mamma consegnò ai due bambini i regali della nonna Margherita: due orologini e due penne d’argento. All’arrivo a casa erano stati accolti dalla Maria e da Carlo l’attendente di papà che avevano regalato loro 2 libretti da messa.

Dopo quel giorno tutte le domeniche i due bambini andavano a messa con la mamma mentre il papà andava a prenderli all’uscita dalla chiesa.

Questi erano i ricordi che ritornavano alla mente del bambino mentre era assorto davanti alla macchina del battello, senza accorgersi delle soste ai paesi della riva piemontese, finché giunsero a Cannobio vicino alla frontiera con la Svizzera. Qui salirono a bordo due doganieri che, esaminato il passaporto dello zio ritornarono a terra. A Cannobio il battello puntò su Luino per attraversare i 7 chilometri di lago che divide le due cittadine.

Durante la traversata che durò circa tre quarti d’ora il bambino si rituffò nei suoi ricordi. Rivide il cavallo bruno con una macchia bianca in fronte che il papà era andato ad acquistare a Saluzzo nel mese di agosto di quell’anno 1914 dopo aver frequentato un corso alla scuola di cavalleria di Pinerolo. Il cavallo si chiamava Derna e quando era arrivato a Bra in treno il bambino era andato a vederlo con il fratello e con l’attendente Carlo.

Il cavallo aveva la stalla nella Caserma del  Reggimento e il papà lo montava quando andava con i soldati in piazza d’armi e durante le marce.

Una sera alla fine di agosto del 1914 il papà fece attaccare il cavallo a un calesse avuto in prestito dal padrone di casa e portò la mamma e il bambino a conoscere i genitori del Carlo, l’attendente, che avevano un grande podere a pochi chilometri da Bra. Essi erano molto grati al papà che aveva fatto trasferire il loro unico figlio da Bergamo a Bra.

Il giovane Carlo era molto affezionato a tutta la famiglia ma soprattutto al suo capitano. Diceva sempre alla mamma, alla Maria e ai bambini che tutti i soldati lo amavano. Il papà era molto severo ma attento ai suoi soldati e concedeva frequenti licenze a tutti purché compissero con diligenza il loro dovere.

Egli si divideva tra i suoi soldati e la sua famiglia. Amava il lavoro manuale e la mamma mostrava con orgoglio alle amiche un tavolino dalle gambe pieghevoli costruito da lui. Aveva una scatola dei ferri che avrebbe fatto onore a un falegname.

Ma il più bel ricordo di quell’ultimo anno di pace fu il Natale. A mezzanotte il papà e la mamma avevano svegliato i bambini e li avevano portati nella sala da pranzo. Nel camino ardeva un bel fuoco e vicino ad esso vi era un albero di Natale con tante palle colorate, candeline accese e fili d’argento: sotto al pino c’erano i regali di Natale portati da Gesù Bambino nella notte. Il papà aveva acceso delle bacchette metalliche che facevano le scintille.

Il giorno dopo mentre la famiglia sedeva attorno al tavolo con la Maria a mangiare la torta di mele fatta da lei era suonato il campanello. Maria era andata ad aprire ed era ritornata dicendo che fuori nevicava e che vi erano due spazzacamini che chiedevano se vi erano canne fumarie da pulire. Il papà disse a Maria di farli entrare ed entrarono due spazzacamini, uno grande ed uno piccolo che il primo disse essere suo figlio. Avevano la faccia nera di fuliggine. Il papà li fece sedere accanto al fuoco e offrì loro una fetta di torta e un bicchiere di vino bianco.

Poi tutti si raccolsero attorno al camino. Il papà chiese all’uomo da dove venivano e l’uomo disse che veniva da una valle del Cuneese. Il fratellino di due anni, immobile, guardava gli spazzacamini con la faccia nera, senza parlare. Ad un certo punto si mise a piangere e disse alla mamma che aveva paura dei 2 diavoli.

Il bambino sapeva che c’era una guerra tra Francia, Inghilterra e Russia da una parte e Germania e Austria dall’altra. Ne aveva sentito parlare in casa da mamma e papà ma non sapeva dove si trovavano questi stati. Sapeva solo che erano molto lontani.

Tutti in Italia pensavano che l’Italia sarebbe stata neutrale perché era impreparata dopo quasi mezzo secolo di pace.

Poi si sparse la voce che i tedeschi avevano invaso il Belgio e tagliavano le mani ai bambini e che avevano occupato una parte della Francia. Si diceva che anche i francesi avevano fermati i tedeschi su un fiume che si chiamava Marna con i rinforzi giunti da Parigi con 10.000 automobili di servizio pubblico.

Il papà diceva che l’Italia non poteva restare neutrale di fronte alle atrocità commesse dai tedeschi e che si dovevano liberare dagli austriaci Trento e Trieste. La mamma lo ascoltava ma non diceva niente.

Alla metà di maggio il papà disse che era arrivato l’ordine di far brunire la fibbia d’argento dei cinturoni portati dagli ufficiali per non farli riconoscere alla luce del sole dal nemico e che i gradi dovevano esser portati solo sui polsi delle maniche e inoltre che doveva esser eliminato dalle spalline dei soldati il numero del reggimento. Tutto questo voleva dire che l’entrata in guerra dell’Italia era quasi certa.

Il 20 maggio il papà volle fare una foto proprio con tutta la famiglia.

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La famiglia qualche giorno della partenza del papà per la guerra: a sinistra Anita e il bambino, il papà con Pino in braccio, la mamma Ambrosina e Lille.

Il bambino si ricordava bene quel pomeriggio dal fotografo: aveva fatto fatica a fare la faccia da grande e per non mettersi a piangere aveva pensato che era anche lui un soldato come il papà: si era messo di fianco alla sorellina per difenderla. Si ricordava anche che la mamma quel giorno era ancora più dolce del solito e che il papà la guardava spesso senza parlare e tenendole la mano.

La mamma era molto preoccupata perché il papà a 35 anni era molto delicato di stomaco e portava una dentiera di ferro che alla sera prima di dormire metteva in un bicchiere d’acqua sul comodino. Aveva anche il sonno leggero. La mamma pensava che il papà non era in condizione di sopportare il vitto di guerra e diceva che pensava di scrivere a un parente generale medico per chiedere il suo intervento per far dichiarare il papà inadatto alle fatiche di guerra. Il papà rideva e le diceva di stare benissimo e che era invulnerabile.

Il 22 maggio il papà portò a casa alcuni taccuini con fogli rigati e piccole matite copiative e disse che erano stati distribuiti ai soldati per scrivere alle famiglie in franchigia postale militare, cioè senza francobollo.

Nel pomeriggio arrivarono sul prato davanti alla casa molti soldati anziani che il Carlo disse essere “territoriali” e cioé destinati alla custodia del territorio: ponti, caserme, ecc. Erano sudati e impolverati e venivano da lontano. Avevano pastrani blu aperti davanti alle gambe e grossi zaini. La mamma e Mario portarono sul prato tutte le pentole della casa piene di acqua e diedero da bere ai soldati, poi riempirono le loro borracce di legno. Il bambino assisteva alla scena mentre i fratelli erano a casa a giocare.

5. La partenza del papà per la guerra

Il 14 maggio alle 5 di mattina il Reggimento partì. L’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria e alla Germania.

I quattro bambini andarono alla stazione con la mamma e la Maria a salutare il papà. Maria portava in braccio il fratellino di due anni. Il bambino e la sorellina Anita erano tenuti per mano dalla mamma, mentre Lille, il fratello maggiore di 8 anni, camminava da solo.

I bambini qualche settimana dopo la partenza del papà: da sinistra Lille, Anita, Pino e Giovanni.

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I bambini qualche settimana dopo la partenza del papà: da sinistra Lille, Anita, Pino e Giovanni (il bambino)

Alla stazione era fermo un lungo treno di carri merci coperti pieni di soldati. Sui vagoni era scritto a grandi lettere: “Cavalli 8 – Uomini 40” e con il gesso: “andiamo per liberare Trento e Trieste e per Natale torniamo a casa”. I vagoni avevano una grande apertura da cui si affacciavano i soldati appoggiandosi a una sbarra di ferro: i soldati erano vestiti di tela grigia con le fasce alle gambe e avevano in testa chepì di tela grigia e non avevano il numero del reggimento sulle spalline. Ogni tanto qualcuno saltava a terra per andare a bere alla fontana.

Il papà era in divisa di tela grigia con le fasce alle gambe e un berretto di tela grigio con visiera senza gradi. Aveva tre stellette sui polsi delle maniche. Portava a tracolla una cinghietta con il cannocchiale e una guaina con la pistola appesa al cinturone. Fumava una sigaretta ed era molto pallido. Il bambino non l’aveva mai visto fumare. Parlava con la mamma che piangeva.

C’era anche l’attendente Carlo: parlava a Maria che aveva in braccio il fratellino Pino. Un po’ lontano c’era un gruppo di persone uomini e donne con bambini venuti dai paesi vicini a salutare i soldati. Malgrado la quantità di gente non si sentiva gridare o vociare: tutti parlavano piano.

La mamma diceva all’attendente: «Carlo le raccomando il capitano. Ne abbia cura e gli stia sempre vicino.» Il papà non parlava e continuava a fumare.

A un certo punto i due tenenti vennero a baciare la mano alla mamma e baciarono il bambino e i suoi fratelli. Poi salirono sul vagone di seconda classe per gli ufficiali che stava davanti a loro. Il colonnello era venuto a salutare la mamma il giorno prima.

Il papà baciò la mamma, i suoi bambini e Maria e salì sul vagone. Riapparve subito da un finestrino. Il treno fischiò e si mosse. Il papà salutò con il braccio fuori e gridò: «Arrivederci». Poi il treno accelerò e scomparve ad una curva.

Il bambino non sapeva che quella partenza per il papà e per la maggior parte dei suoi soldati sarebbe stata senza ritorno.

6. Arrivo a Pallanza

Quello stesso giorno 24 maggio 1915, dopo un viaggio con la mamma e i fratelli con sosta e cambio di treno a Torino e Arona il bambino alle 5 del pomeriggio varcò la portina di ferro sormontata da una lastra di beola col n. 58 del viale Principe Umberto a Pallanza ed entrò nel giardino che conduceva alla casa dei nonni. C’era un vialetto inghiaiato in salita perché la casa era in alto rispetto al viale. La mamma lo seguì con i fratelli.

Un signore alto con i capelli grigi venne di corsa incontro a loro, prese in braccio il bambino e lo baciò. Il bambino seppe più tardi che era il ragioniere del nastrificio e che lo chiamavano Fusci perché si inceppava nel parlare.

Poi arrivò la nonna con la figlia che il bambino aveva conosciuto a Bra e ci fu uno scambio di baci e abbracci. Quindi salirono tutti lo scalone esterno e attraversato un grande atrio salirono due rampe di scale ed entrarono in un appartamento in cui la nonna abitava con il figlio avvocato e con la zia crocerossina entrambi non sposati.

In quell’appartamento la nonna aveva vissuto per parecchi anni con il nonno e con i cinque figli: due maschi e tre femmine. Lo zio avvocato era fuori casa per affari.

Quella sera mangiarono presto e poi la mamma e i bambini andarono a dormire stanchi morti per il viaggio ma ancor più per le emozioni provate. Prima di dormire il bambino disse le preghiere e chiese al Signore, per la prima volta, di proteggere il papà.

Il mese di giugno a Pallanza passò senza particolari avvenimenti salvo l’arrivo di una lettera del papà nella prima settimana. In essa il papà aveva messo un mazzolino di fiori di campo colti fuori dalla sua tenda e scriveva che il reggimento, arrivato a Udine in treno la sera del 24 maggio, aveva pernottato in una Caserma vuota in quella città e il giorno dopo con una marcia di 40 chilometri era giunto nei pressi del fiume Isonzo che costituiva il confine fra l’Italia e l’Austria. Si era accampato di fronte a un ponte di ferro che attraversava il fiume e conduceva direttamente alla piccola cittadina di Gorizia.

Dopo alcuni giorni il colonnello che comandava il reggimento aveva ordinato al papà di andare in avanscoperta a perlustrare la cittadina. Il papà alla testa della sua compagnia aveva attraversato il fiume sul ponte di ferro ed era entrato in Gorizia alle 6 del 2 giugno. Aveva trovato il paese deserto salvo due guardiacaccia. Questi, interrogati, avevano risposto in italiano che la piccola guarnigione austriaca il 24 maggio aveva abbandonato il paese per timore di attacchi improvvisi e con lei erano fuggiti tutti gli abitanti, per la maggior parte austriaci, con il bestiame. Nel pomeriggio dello stesso giorno il papà con i suoi soldati si era ricongiunto con il reggimento. Dall’altra parte del fiume nessuno si era fatto vivo per parecchi giorni.

In fondo alla lettera vi erano i saluti affettuosi per tutti a Pallanza. Questa lettera e le altre che seguirono furono rilette dalla mamma alla nonna e ai bambini infinite volte per mesi e anni tanto che restarono impresse nella memoria del bambino che si limitò a prendere nota delle date e dei nomi più importanti o almeno ritenuti tali.

7. Papà agli arresti in trincea

Il bambino era molto sentimentale e ogni tanto andava a guardare il mazzolino di fiori di campo colti dal papà e che la mamma aveva appeso a un piccolo chiodo posto sopra il letto matrimoniale in cui dormiva con la sorellina e il fratellino.

Intanto era arrivato da Bra tutto il mobilio che la Maria aveva spedito per ferrovia con l’aiuto del padrone di casa prima di rientrare a Perugia dove viveva con la sua famiglia.

Verso la metà del mese giunse una seconda lettera del papà che comunicava che erano arrivati nella zona altri reggimenti di fanteria e che si erano scavate delle trincee con il bordo verso il nemico protetto da sacchetti di terra e si erano stesi i primi reticolati e che sembrava che sull’altra sponda gli austriaci facessero altrettanto.

La terza lettera giunse nella terza settimana di giugno. In essa il papà diceva di essere molto addolorato per la morte del primo tenente che era stato colpito in fronte da un cecchino austriaco appostato sull’altra sponda, mentre si sporgeva dalla trincea per controllare con il cannocchiale i movimenti del nemico. Non erano ancora arrivati gli elmetti di acciaio e lo zio avvocato diceva che eravamo entrati in guerra impreparati.

Intanto i bambini giocavano in giardino con i bambini della villa vicina. Tutti portavano sopra gli abiti un grembiulino allacciato alla schiena. La mamma aiutava la nonna nelle faccende di casa.

Nella quarta settimana di giugno giunse la quarta lettera. In essa il papà si diceva molto amareggiato perché era stato punito dal suo colonnello con tre giorni di arresto in trincea per aver contravvenuto all’ordine superiore di non far sparare contro gli aerei nemici che sorvolavano le trincee per non rivelarle. La mamma con la nonna pianse di rabbia e lo zio commentò che gli alti comandanti non erano mai stati su un aeroplano e quindi non sapevano cosa si vedeva.

Tutte le sere la mamma con la nonna la zia e due operaie che venivano in casa ad aiutare diceva il rosario per la salvezza del papà. Lo dicevano al buio per non consumare la corrente elettrica che serviva per le industrie di guerra.

Anche da loro i torni che servivano per fare i rocchetti di legno per la seta erano stati requisiti e destinati alla fabbricazione per i proiettili dei cannoni da campagna. I proiettili erano ricavati da barre rotonde di ferro tagliate a pezzi. Ogni pezzo veniva scavato all’interno per l’esplosivo e lavorato all’esterno per le cinture di ferramento di rame, veniva inoltre filettato per l’applicazione dell’ogivo che conteneva il detonatore che veniva costruito in altre officine.

L’officina era situata nel seminterrato ed aveva grandi finestre verso il giardino. Vi lavoravano solo giovani donne che facevano anche i turni di notte ed erano dirette da un capo officina di Crusinallo paese vicino ad Omegna. Il capo officina aveva un occhio con una benda nera perché si era infortunato sul lavoro.

Nella casa oltre all’appartamento del nonno e a quello dello zio ragioniere al secondo piano vi era un appartamento al primo piano occupato da un medico con la mamma e al secondo piano il procuratore del Re con la moglie e una figlia amica della zia.

Sul pianerottolo del solaio c’era un grande cassone di ferro pieno d’acqua del pozzo per spegnere eventuali incendi nel nastrificio. Sul tetto della casa c’erano due parafulmini perché quando era stata costruita la casa era in mezzo alla campagna.

Il bambino spesso pensava al papà con la sua divisa di tela in trincea senza acqua per lavarsi, con vitto cattivo e molto inquieto per i richiami delle sentinelle.

8. Le trincee

Ai primi di luglio arrivò la quinta lettera. Il papà diceva che le trincee erano state migliorate con tavolati sul fondo rialzate e con le pareti rivestite di graticci di rami e lamiere. Si erano anche costruiti ricoveri interrati per gli ufficiali e per i soldati. Erano arrivate le prime mitragliatrici raffreddate ad acqua e servite dal mitragliatore e dal manovratore della pompa che faceva circolare l’acqua. Erano stati anche costruiti camminamenti per il rifornimento di viveri e munizioni e per il collegamento delle prime linee con le seconde e terze linee. I campi trincerati ormai si estendevano lungo tutto il corso dell’Isonzo dalle montagne al mare adriatico. Frequenti erano i duelli di artiglieria con l’uso di shrapnels che lanciavano una pioggia di schegge e pallottole sulle trincee.

Il mese di luglio passò senza avvenimenti speciali. Anche le poche lettere del papà contenevano solo saluti e raccomandazioni di essere sereni ed uniti. Le notizie militari erano poche perché c’era la censura. Gran parte degli uomini idonei era stato richiamato alle armi.

Intanto il bambino molto curioso si faceva dare dalla mamma, dalla nonna e dalla zia, notizie sulla famiglia del nonno. Le figli erano state in collegio dalle suore Orsoline a Como mentre lo zio avvocato era stato in collegio a Mortara. Un giorno era scappato a Pallanza e il nonno l’aveva riportato a Mortara chiuso in un sacco. Lo zio ragioniere, tenente di complemento di Commissariato era a Vicenza.

La mamma parlava spesso del papà con la nonna e lo zio avvocato, e diceva che il papà in trincea era sprecato perché da sottotenente a Roma aveva tenuto un corso di organica militare agli allievi ufficiali e aveva anche scritto un manuale di organica militare basato sulla formazione ternaria dalla squadra al corpo d’armata. Un terzo all’attacco e due terzi sui lati fermi a sostenerlo. Era un concetto adatto per la guerra di movimento. La mamma avrebbe voluto che il papà non fosse mai partito ma il bambino sapeva che il papà sarebbe partito a qualsiasi costo e non avrebbe mai accettato l’idea di rimanere a casa mentre i suoi soldati erano al fronte.

9. La morte del papà

Nella prima settimana di agosto giunse una lettera di Carlo l’attendente che diceva che il papà era ammalato: aveva un po’ di febbre e disturbi intestinali e stava molto in branda. Il tenente medico che veniva a visitarlo gli consigliava di avvertire il colonnello per farsi ricoverare nel più vicino ospedale. Ma il papà non voleva lasciare i suoi soldati e rifiutava di lasciare il fronte. La notizia fece piombare tutta la famiglia nella tristezza perché sapevano che il papà malgrado il carattere di ferro aveva un fisico delicato. La mamma voleva scrivere al colonnello ma poi rinunciò per riguardo al papà e sperando che trattasse di un male passeggero.

Finalmente verso la metà di agosto giunse una lettera del papà che diceva di stare bene e che tutto procedeva nel migliore dei modi. In casa furono tutti felici della notizia e ritornò la fiducia nella buona stella del papà.

Ma il sereno durò poco perché il 22 agosto giunse una lettera del capitano medico che comunicava che le condizioni del papà si erano aggravate e che riteneva trattarsi di tifo e che avrebbe provveduto a farlo ricoverare nell’ospedale militare di Casale Monferrato molto ben attrezzato. La lettera gettò nella disperazione tutta la famiglia e quando il giorno 24 agosto giunse un telegramma dall’ospedale militare che comunicava il ricovero del capitano gravemente ammalato, lo zio avvocato e la zia crocerossina partirono immediatamente per Casale Monferrato.

Nei giorni che seguirono giunsero telegrammi giornalieri dello zio che comunicavano continui aggravamenti. La mattina del 28 agosto il bambino era nel tinello con la nonna mentre la mamma stava vestendo le sorelline e il fratellino, quando giunse il vecchio postino con un telegramma dello zio. La nonna l’aprì e lesse: “Blocco renale”, scoppiò a piangere e corse ad avvisare la mamma.

Da quel momento la casa piombò nel lutto.

Il papà morì nel pomeriggio del giorno dopo 29 agosto  dopo aver detto allo zio avvocato che l’assisteva con la zia ed una suora: «Peppino ti raccomando i miei bambini».

Il giorno 31 arrivò col tram il vagone con il feretro del papà che venne portato nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano in cui il papà si era sposato nel 1905 e poi al cimitero di Pallanza nella tomba di famiglia degli Albasini.

I tre fratelli avevano reagito in modo diverso alla notizia. Il fratello maggiore  era troppo svagato e immerso nei suoi sogni sportivi. La sorella appariva indecifrabile al bambino. Il terzo era troppo piccolo.

Il bambino rimase molto scosso alla notizia della morte del padre ma non pianse perché era di natura molto riservata e riflessiva. Ma soprattutto perché non poteva subito rendersi conto della gravità della perdita subita, che sarebbe diventata sempre più forte col passare degli anni. Il bambino avrebbe imparato ad amare quell’uomo quasi sconosciuto di cui sapeva solo che anteponeva il dovere a tutto, anche alla famiglia che pure amava tanto.

Il giorno del funerale il bambino si trovava nel salotto della nonna, con questa, la mamma e i fratelli e la zia. Lo zio avvocato era andato al funerale a rappresentare la famiglia. Poi vennero gli inquilini: il procuratore del re con la famiglia e il dottore con la madre. Tutte le persiane della casa erano chiuse. A un certo punto entrò in salotto lo zio ragioniere venuto da Vicenza. Era in divisa militare e quando entrò la mamma urlò: «Vai fuori non voglio più vedere divise militari» e scoppiò a piangere.

Il bambino andò sul terrazzo a veder passare il corteo. Rimase colpito perché c’era tutta Pallanza con le sue organizzazioni e un picchetto di soldati. C’era anche la banda musicale che suonava con i suoi suonatori più vecchi e c’erano molte bandiere. Si rese conto per la prima volta dell’importanza della famiglia materna: gli Albasini erano conosciuti e stimati anche nei paesi vicini.

Dopo quel giorno la mamma andò quasi ogni giorno al mattino e al pomeriggio a trovare il papà al Cimitero con i 4 bambini. Le poche persone che trovavano guardavano con pietà quella vedova di 27 anni con 4 bambini e la salutavano con rispetto. Per fortuna c’erano la nonna e i due zii.

Tanti anni dopo lo zio Peppino avrebbe detto al bambino ormai adulto che il papà era morto disperato pensando alla moglie e ai figli piccoli. Lo zio avvocato, dopo qualche mese, quando aveva ripreso ad andare al caffé con gli amici dopo cena per parlare di guerra, disse che di notte quando ritornava a casa sul viale semi buio sentiva dietro alle spalle il passo del papà e il tintinnio degli speroni lo accompagnava per un po’ poi se ne andava e ritornava il silenzio.

Tutti rimasero molto impressionati. Soprattutto la mamma e la sorella molto superstiziose. Il bambino si rese conto che lo zio Peppino era molto affezionato al papà e lo sentiva vivere. Da quella sera il bambino ricordò il papà nelle sue preghiere e pregò il Signore di accoglierlo in Paradiso.

Ogni 15 giorni la mamma faceva dire una messa in memoria del papà nella cappella dell’orfanotrofio femminile. Un piccolo istituto creato da don Ceresa, un prete generoso che era diventato amico della mamma e officiava la messa.

Il settembre passò con i bambini sempre in compagnia dei bambini della villa vicina. Questi avevano due nonni molto vecchi: la signora Laura di 70 anni e suo marito ex garibaldino di 80 anni. I bambini stavano ore a sentire le loro storie e stavano anche spesso ad ascoltare la nonna che raccontava la sua vita di bambina a Como prima che gli austriaci nel 1848 incendiassero gli alberghi dei genitori. Alla sera dal terrazzo guardavano le rondini a migliaia sfrecciare in alto nel cielo. La mamma diceva che quando volavano basso preannunciavano la pioggia. Il bambino sentì lo zio parlare di un’offensiva austriaca nel Trentino respinta dagli alpini.

Il 29 settembre la mamma fece dire una Messa in memoria del papà a un mese dalla morte nella sua Parrocchia della famiglia Santo Stefano. La mamma andò con i 4 bambini, la nonna, la zia Anita e tutte le operaie della fabbrica ad assistere alla messa. C’erano tutti gli amici della mamma e degli zii e tutte le autorità. In una cappella laterale della Chiesa con i banchi c’erano le orfanelle che tutte le domeniche andavano a messa in parrocchia. Il bambino si sentì male per l’odore dell’incenso e credette di svenire. La mamma disse che era allergico all’incenso e da allora gli permise di uscire dalla chiesa quando il sacerdote usava l’incensorio.

Il 30 settembre la mamma andò a iscrivere i bambini alla scuola, il fratellino all’asilo sul viale Principe Umberto e il figlio maggiore alla prima ginnasiale, la bambina alla prima elementare e il bambino alla seconda elementare. Le elementari e il ginnasio erano in un fabbricato nuovo inaugurato l’anno prima.

In settembre la nonna aveva ricevuto lettere dal fratello del papà, lo zio Domenico de Francesco che abitava a Napoli con 2 figli e dalla sorella che abitava a Messina con 3 figlie, e anche dalle due sorelle monache: una a Catania e una a Genova, e dai due nipoti del papà che abitavano a Verona ed erano orfani di un fratello, maggiore dei bersaglieri morto a Palermo nel 1907 per una caduta da cavallo e della madre. Il bambino pensò a questi due cugini, un ragazzo e una ragazza che erano orfani di papà e mamma e si sentì molto vicino a loro. Giunse anche una lettera della zia di Como moglie dello zio ragioniere. Nella lettera c’era una parte scritta dalla figlioletta di 8 anni per il bambino che da allora le fu sempre amico.

In quel settembre il bambino vide passare nella stradina che stava dietro la casa le 3 mucche del Bigin, l’uomo che dava il latte alla nonna, con lui e con la madre e il fratello scemo che camminava a piedi nudi e portava una camicia lunga fino ai piedi e continuava a chiamare la madre che camminava davanti a lui: «Mama mama». Lo chiamavano Stevan mut perché era muto.

Vide anche il Giuvanin da Trubas, il Giovanni di Trobaso (un paese alle spalle di Pallanza con diverse industrie, un nastrificio e una cartiera) il quale, scemo, raccontava una filastrocca “Stropabandera”. Era un gioco allora in voga Strappabandiera. Sul viale passava un carretto di frutta e verdura tirato da un asino e il fruttivendolo suonava una tromba. A Pallanza in quegli anni vi era solo un piccolo negozio di verdura in Piazza San Giuseppe.

Sotto il porticato del Municipio in riva al lago veniva tutte le sere affisso il bollettino del Comando supremo che comunicava le operazioni sui vari fronti: quello dell’Isonzo e quello del Trentino e le perdite. Il nome dei soldati morti veniva comunicato direttamente dalla famiglia dai carabinieri. In quei primi mesi di guerra le perdite erano poche.

L’officina lavorava giorno e notte con nuove macchine per fare i bossoli dei proiettili per l’artiglieria mentre il nastrificio lavorava a rilento perché in ottobre erano rimasti solo 6 operai anziani e il vecchio Tiberio.

Si diceva in giro che i combattenti erano più di 4 milioni.

C’era molta lana perché la pastorizia sulle Alpi era molto diffusa e in quasi tutte le famiglie le donne facevano lavori a maglia per i soldati: calze, guanti, maglie, mutande e passamontagna. I cotonifici producevano soprattutto bende e garze per gli ospedali: mentre le tessiture producevano soprattutto panno grigioverde.

Il 15 ottobre il bambino accompagnato dalla mamma alle 8 andò a scuola in una seconda classe elementare. Entrato nell’aula indicatagli vide i compagni. Erano una ventina di ragazzi quasi tutti più vecchi di lui e poi notò che avevano quasi tutti gli zoccoli di legno con la sola tomaia in pelle. Con le scarpe di pelle oltre a lui c’erano solo altri tre bambini della sua età con cui avrebbe fatto amicizia e che abitavano sul viale Principe Umberto. Seppe poi che erano figli di un professore di ginnasio, di un medico e di un commissario di polizia.

La maestra, una signora piccola e grassoccia con gli occhiali, indicò un posto nel primo banco. Vide che i banchi erano diversi da quelli di Bra, avevano un piano un po’ inclinato con una parte piana in sommità. Questo aveva un incavo per la penna e la matita e un foro per il calamaio di piombo con l’inchiostro. Quel giorno la maestra parlò delle noci e delle castagne e insegnò ai bambini i nomi delle diverse parti che le componevano e come si mangiavano. Descrisse anche le loro piante e i luoghi dove si trovavano. Prima aveva fatto l’appello e aveva scritto in un registro i nomi e cognomi e l’età di tutti gli alunni. Quando arrivò al bambino gli disse che aveva conosciuto i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi zii. Poi gli disse: «Spero che farai sempre il tuo dovere come il tuo papà morto per la patria». Gli altri bambini sapevano tutti che era un Albasini e che era orfano di guerra.

Il secondo giorno di scuola fu per il bambino un giorno difficile. La maestra dettò alcune parole e quando si spostò per i banchi a controllare vide che il bambino scriveva tenendo la cannuccia in modo strano e che anche la calligrafia rappresentava per lei una novità. Si informò dove avesse fatto la prima elementare poi disse di aspettare ad uscire dalla classe alla fine della lezione. Fece chiamare il direttore che arrivò subito e gli espose il caso. Il direttore disse che era un modo di scrivere usato in Germania e dopo aver fatto scrivere al bambino alcune parole gli disse: «Continua pure così».

Nei primi giorni di novembre la scuola restò chiusa per 4 giorni e il bambino andò al cimitero tutti i giorni con la mamma, i fratelli e gli zii. La tomba dei nonni Albasini era sotto il portico sotto il portico e con una statua rappresentante una donna seduta con un mazzolino di fiori in mano c’erano scritti in lettere di bronzo i nomi dei bisnonni e del nonno Achille con le date di nascita e di morte. Per il papà invece c’era una lastra di marmo con nome e cognome e le date di nascita e di morte in nero e la scritta: Segno provvisorio. Il bambino restò mortificato ma non lo fece notare a nessuno e promise a se stesso, quando fosse diventato grande, di far costruire una grande tomba per il papà con la statua di un soldato che montava la guardia.

In dicembre nella famiglie più ricche dove si leggevano i giornali si facevano gli scalda-rancio. Si arrotolava un giornale, pagina per pagina dopo aver fatto cadere le gocce di una candela accesa e tenuta inclinata e si formava un cilindro di 5 o 6 centimetri di diametro che poi veniva tagliato in pezzi lunghi circa 10 centimetri. Questi pezzi venivano accessi con un fiammifero di legno dai soldati nelle trincee e nei ricoveri e bruciato lentamente sotto le gavette di ferro riscaldava la minestra che dalle retrovie arrivava, portata a spalla nelle marmitte da campo, nelle trincee sempre più fredde. Anche il bambino con il fratello maggiore, imparò a fare gli scalda-rancio e poi li facevano tagliare dalla mamma o dalla nonna con una taglierina imprestata dai genitori dei bambini della villa vicino che avevano una fabbrica di cartoni a Santino. Quel mese di dicembre fu molto freddo e si verificarono tra le truppe di montagna “gli alpini” molti casi di congelamento.

I bambini dei primi banchi erano gli unici tranquilli e attenti alle parole della maestra. Gli altri ragazzi parlavano, si tingevano la faccia con l’inchiostro e saltavano sui banchi. Però erano molto legati tra loro. Un giorno che uno di essi giunse in classe con il viso rigato di lacrime perché la famiglia aveva ricevuto la notizia della morte sul fronte alpino di un fratello maggiore del ragazzo. Tutti i compagni gli si affollarono attorno per consolarlo. La maestra tutte le mattine e tutti i pomeriggi prima di iniziare la lezione faceva dire agli alunni una preghiera per i soldati che combattevano nelle trincee.

A Natale non si fece festa, però il bambino trovò vicino al suo letto un piattino con 2 africane (dolci al cioccolato) trovate dalla nonna chissà dove e il fratello trovò una piccola canna da pesca.

In gennaio nevicò e si cominciò a parlare di valanghe e di soldati sepolti sotto la neve. Il bambino mentre faceva il compito nel tinello riscaldato dalla cucina economica a legna della attigua cucina, sentiva la nonna che tentava inutilmente di insegnare al fratello maggiore le prime parole di latino “Rosa – Rose – Rosam”. Il fratello maggiore un giorno ritornò a casa perché il professore padre di Mario il più caro amico del bambino lo aveva scacciato dalla classe dicendogli: «Tu non sei adatto a studiare il latino». Il giorno dopo la mamma e la nonna andarono a parlargli ed egli le convinse a iscriverlo all’Istituto tecnico da cui uscivano geometri e ragionieri. La mamma dopo averne parlato con la nonna, di cui il fratello Lille era il beniamino, e con gli zii seguì il consiglio del professore e lo iscrisse al primo anno dell’Istituto tecnico.

In marzo al disgelo vi fu una battaglia sull’Isonzo fatta dalle nostre truppe e il nemico per la prima volta usò il gas cloro costringendo i nostri ad usare le maschere antigas. I solati uscivano dalle trincee di notte per tagliare i reticolati nemici con le pinze per aprire i varchi da cui passavano i soldati per andare all’attacco alla baionetta. Per passare il fiume i genieri lanciavano i ponti di legno sotto il fuoco della fanteria perché l’artiglieria nemica doveva sparare più lontano delle linee troppo vicine e separate solo dal fiume. Ogni battaglia in queste condizioni comportava perdite altissime per morti feriti e dispersi. I bollettini di guerra avevano toni trionfalistici. Nella prima quindicina di agosto fu conquistata Gorizia ridotta ad un cumulo di macerie ma di grande significato.

Il bambino ripensava alla prima lettera del papà che era entrato in Gorizia alla fine di maggio dell’anno prima, si chiese se un esercito più agguerrito e meglio comandato avrebbe potuto mantenere il possesso da allora risparmiando tante vite umane e tanti dolori alle famiglie.

Dal marzo di quell’anno le offensive sull’Isonzo si ripeterono con perdite ingenti e quasi non passò giorno senza che arrivasse la notizia di un caduto nella famiglia di ogni scolaro della scuola o alla famiglia di un suo parente o alla famiglia di un suo conoscente. Un velo di lutto calò nell’animo di tutti, ragazzi e adulti, e non valsero a sollevarlo i gridi di incitamento dei ragazzi della piazza che si tuffavano dal molo di San Dazio nel porto di Pallanza durante l’estate.

Per fortuna i bollettini di guerra avevano cominciato a citare i combattimenti e le vittorie degli aviatori italiani quasi tutti provenienti dalla cavalleria. Soprattutto era diventato un mito Baracca che con le sue vittorie era divenuto simbolo del coraggio e del valore del soldato italiano e faceva bene sperare per il futuro. A scuola la maestra parlava di questo eroe e dei suoi compagni mentre ricordava i nomi dei caduti.

In giugno si svolse la battaglia degli altipiani combattuta dagli alpini e in essi cadde un tenente ingegnere di 25 anni figlio di una cugina della mamma. La povera signora ebbe uno shock così forte che non si riebbe più. Il bambino ogni tanto andava a trovarla con la mamma e la trovava sempre a letto circondata dalle tre figlie che cercavano di confortarla ma invano.

In quell’estate il bambino aveva bevuto per la prima volta un gassosa che era l’unica bevanda esistente oltre l’acqua e il vino ed era acqua zuccherata e gasata contenuta in una bottiglietta di vetro verdino chiusa da una pallina di vetro dello stesso colore. Per aprire la bottiglia bisognava spingere la pallina dentro la bottiglia. Poi inclinando la bottiglia il liquido usciva mentre la pallina era trattenuta da due risvolti esistenti all’interno del collo. Altra bevanda in uso era il selz contenuto in una bottiglia di solito blu chiusa da un sifone a leva. Abbassando questa leva l’acqua gassata usciva di forza.

I giochi dei ragazzi consistevano in cerchi di legno, o cerchioni di bicicletta spinti con una bacchetta in trottole di legno che si facevano girare con una frusta. I ragazzi del popolo giocavano anche alla lippa che era un pezzetto di legno con due estremità coniche. Battendo su una punta con un bastone il pezzo saltava in aria e veniva colpito con il bastone e buttato lontano. L’avversario doveva con un bastone colpirlo e rilanciarlo e così via. Poi vi era il gioco delle palline: si mettevano una decina di palline di vetro colorato in  fila e da lontano si lanciava un’altra pallina si vincevano le palline colpite. Tutti i giorni uscendo da scuola il pomeriggio il bambino giocava alle palline in mezzo alla strada con i suoi tre amici e li accompagnava a casa. Durante le vacanze nelle giornate calde andava con la nonna e la sorella alla Madonna di Campagna dove la nonna lavorava a maglia seduta su panchine di granito all’ombra di grandi alberi. Lo zio avvocato era sempre impegnato con l’officina e il nastrificio. La zia crocerossina stava tutto il giorno al nuovo ospedale militare sulla Castagnola e alla sera suonava il pianoforte in salotto e il bambino che amava molto la musica stava a sentirla. La nonna stava molto con il fratellino più piccolo di 3 anni, che amava moltissimo. Era un bel bimbetto biondo con gli occhi azzurri come il papà. Il fratello maggiore era quasi sempre a ripetizione o cercava di prendere gli uccellini con un tirasassi confezionato da lui stesso con un ramo a V e due elastici ricavati da gomme di bicicletta, con in fondo una taschetta di pelle.

Il bambino il 18 giugno aveva compiuto 8 anni e il 15 giugno alla fine dell’anno scolastico era stato promosso alla terza elementare con tutti 9 e 10 in condotta. Anche il fratello maggiore di 10 anni era stato promosso alla seconda classe dell’Istituto tecnico. La sorella Anita, invece, era stata promossa alla seconda elementare.

10. A Locarno. I soldati svizzeri

Mentre il bambino navigava con la mente nei suoi ricordi il battello dopo aver toccato tutti i paesi della parte Svizzera del lago era giunto a Locarno. Lo zio si era addormentato e un marinaio andò a svegliarlo.

Zio e nipote uscirono sul ponte. Pioveva sempre. Sul battello erano salite diverse persone. Quando scese dalla passerella tenuto per mano dallo zio il bambino guardò in alto e vide un tetto di ombrelli neri. Tra la tanta gente venuta ad accogliere lo zio che portava notizie fresche dall’Italia c’era anche il sindaco di Locarno che venne a stringere la mano allo zio e saputo da lui che c’era un piccolo italiano orfano di guerra, salutò il bambino, dicendogli «Benvenuto in Svizzera, spero che amerai la patria dei tuoi zii».

Qualcuno diede un ombrello allo zio che si avviò verso casa con il bambino. Dopo aver attraversato una grande piazza giunsero davanti alla casa. Lo zio trasse da una tasca una chiave e aprì il portone, attraversato un atrio illuminato da lampade elettriche salirono due rampe di scale e arrivarono davanti a una porta lucida. Lo zio suonò il campanello e la porta venne aperta. Una signora piccola con i capelli grigi baciò lo zio e prese in braccio il bambino. Era la zia. Baciò più volte il bambino dicendogli: «Benvenuto a casa di tuo zio Giovanni che sarà il tuo nuovo amico». Era vero. Lo zio sarebbe stato per tutta la sua vita il miglior amico dopo lo zio Peppino.

A Locarno il bambino dormiva in una mansarda con una finestra rotonda da cui si vedeva il lago. In casa faceva caldo e il bambino si meravigliò e chiese allo zio dov’erano le stufe perché non le vedeva. Lo zio si mise a ridere e disse che il riscaldamento era fatto con piccole stufe elettriche, perché la Svizzera produceva molta energia elettrica nelle sue centrali alpine. Il bambino le guardò e vide che esse avevano delle spirali metalliche rosse.

A tavola mangiavano pasticcio di patate e formaggio con bicchieri di latte o birra. C’era molto cioccolato. Alla sera la casa era molto illuminata. La zia lo portava a passeggio tutti i giorni e il bambino si meravigliava sentendo alcuni soldati parlare in una lingua che non conosceva. Lo zio disse che erano soldati di cantoni di lingua tedesca e spiegò allo zia che la Svizzera era formato da popolazioni di lingua tedesca e da altre di lingua francese e infine dal Canton Ticino di lingua italiana. Il bambino rifletté e chiese allo zio come mai i tedeschi combattevano contro i francesi e gli austriaci di lingua tedesca contro gli italiani.

Lo zio gli spiegò che gli svizzeri avevano combattuto per secoli come mercenari per tutti i re d’Europa e solo per denaro, poi si erano accordati di non combattere contro nessuno tranne che per difendersi e da 7 secoli mantenevano la più stretta neutralità e custodivano gelosamente la loro libertà.

Per mantenere questi due preziosi beni mantenevano un forte esercito allenato a combattere sulle montagne e tutti i cittadini erano soldati tutta la vita. Il bambino si sentì pieno di ammirazione per questo popolo così vicino all’Italia e lo disse allo zio che per ricompensarlo lo condusse un giorno al tiro a segno. Il bambino vi trovò soldati di tutte le età e seppe che tutti i cittadini avevano a casa l’uniforme e il fucile con le munizioni e lo zaino con i viveri per tre giorni.

11. I profughi

I giorni passarono in fretta e la mattina del 7 ottobre il bambino con lo zio si imbarcò sul battello Lombardia e giunsero a Pallanza alle 5 del pomeriggio. A casa tutti l’aspettavano e mentre lo zio parlava con lo zio avvocato il bambino raccontò alla nonna, alla mamma e ai fratelli tutto ciò che aveva visto e sentito. Il giorno dopo lo zio svizzero partì per Roma e il bambino lo accompagnò al tram.

Nei giorni seguenti il bambino parlò della Svizzera a tutti quelli che incontrava. Per non dimenticare nulla di quello che aveva imparato a Locarno scrisse delle note sul quaderno per farle vedere alla maestra. La mamma e la nonna furono molto contente di questa sua decisione e vollero vedere il quaderno. Anche lo zio avvocato volle vedere il quaderno e gli regalò 5 lire. Il fratello maggiore dopo aver ascoltato i suoi racconti sulla Svizzera gli disse che un giorno sarebbe andato a Locarno in bicicletta e che per questo aveva cominciato ad usarla in giardino facendosi aiutare dal Tiberio a portarla su e giù dalla scalea perché era molto pesante. Il bambino lo guardò con ammirazione. Vennero a trovarlo anche i suoi tre compagni di scuola. Uno di essi, Mario, che era il più intimo lo invitò a cena una sera da parte dei genitori. Quando vi andò il bambino trovò oltre a Mario e ai genitori (il papà era professore di Ginnasio) anche il nonno che era un vecchio alto con una lunga barba bianca che studiava sempre dei libroni con le stelle perché era stato in gioventù un astronomo. Quella fu una brutta sera per il bambino perché a tavola dovette ingoiare una minestra di tapioca che non gli piaceva, anzi gli faceva nausea perché non l’aveva mai mangiata.

12. La fine della Guerra

Il 15 ottobre alle 8 il bambino andò a scuola per l’inizio dell’anno scolastico. La classe era cambiata ma l’aula era uguale a quella dell’anno prima. Anche la maestra era sempre la stessa. Essa seguiva i bambini dalla prima elementare alla quarta; alla fine della quarta tutti i ragazzi lasciavano la scuola. Solo il bambino e i suoi tre amici avrebbero frequentato i 5 anni di ginnasio e poi i 3 anni di liceo. Queste erano le scuole elementari e medie di allora.

Il primo giorno la maestra fece l’appello e segnò i nomi in un registro, poi ritirò i compiti delle vacanze. Quel giorno prima di cominciare la lezione disse agli scolari che bisognava ricordare l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania affondato nel maggio dell’anno prima da un sottomarino tedesco benché fosse una nave passeggeri. Fra i 1500 passeggeri vi erano molti americani e disse anche che nel mese di agosto era stata dichiarata la guerra alla Germania da parte dell’America.

Poi chiese al bambino notizie sulla Svizzera e questi disse che tutti gli uomini erano stati chiamati alle armi. Un altro ragazzo raccontò che aveva saputo che anche sulle montagne verso il confine svizzero si facevano strade e altri lavori militari con l’impiego di prigionieri austriaci.

Intanto continuavano le battaglie sul Carso con l’impiego di reparti d’assalto, gli “Arditi” e con l’impiego di tubi di esplosivo per distruggere i reticolati prima degli assalti. Le perdite erano grossissime.

Nella seconda metà di ottobre era ritornato da Como lo zia moglie dello zio ragioniere con la cugina di 9 anni e aveva ripreso possesso dell’appartamento al secondo piano. Da allora quasi ogni giorno il bambino andava con le sorelle a giocare con la cugina. In novembre le insegnò a fare gli scaldarancio e la bambina per ringraziamento gli donò un grosso pacco di giornali vecchi trovati in solaio.

A scuola erano cominciati i dettati, i temini e i problemi di aritmetica. I ragazzi erano diventati più tranquilli e seguivano con attenzione le lezioni della maestra e i suoi commenti sulla guerra. Alla metà di novembre vi fu una recita di beneficenza per i soldati in convalescenza e il bambino con tutta la classe imparò a cantare la Marsigliese in francese e una canzone militare inglese che si cantava nelle trincee in Francia, dove francesi e inglesi combattevano insieme. Una sera ci fu lo spettacolo in teatro e il bambino cantò le due canzoni.

Il giorno dopo il Fusci incontrando il bambino gli chiese: «Come facevi a cantare con la bocca chiusa?» Infatti il bambino molto timido aveva cantato ma a bocca chiusa, per se.

Il Natale fu abbastanza sereno e lo passarono tutti insieme dalla nonna. L’inverno fu lungo, con neve e molto freddo. La mamma con i suoi bambini era sempre in casa della nonna, questa e gli zii decisero di vendere allo zio ragioniere la villa uguale a quella della mamma, che si trovava sul viale davanti alla casa. In aprile del 1917 la zia e la cugina vi si trasferirono e il bambino con la mamma e i fratelli lasciò la casa della mamma e salì al secondo piano nell’appartamento lasciato libero dallo zio ragioniere. Vi sistemarono i mobili venuti da Bra due anni prima e il bambino finalmente poté fare i compiti e studiare in una bella camera a 2 letti dove dormiva con il fratello. La mamma dormiva nel letto matrimoniale con la bambina e sopra il letto aveva l’arazzo con la Madonna e il Bambino e il mazzolino di fiori mandato dal papà.

La mamma era molto coraggiosa e paziente e si era dedicata completamente ai bambini. Aveva imparato dalla nonna a cucinare e a cucire e faceva fare i compiti al figlio maggiore. Il bambino e la sorella studiavano da soli. Anche a scuola mandava tutti da soli perché il viale era sicuro. Solo il fratellino che andava all’asilo era accompagnato perché aveva solo 4 anni.

Tutte le sere la famiglia scendeva in casa della nonna per farle compagnia perché la zia era fuori tutta la notte all’ospedale sempre pieno di gente e lo zio andava a vedere l’officina che lavorava anche di notte. Della guerra si parlava poco. Le battaglie sul Carso si susseguivano e le perdite erano sempre più gravi perché gli austriaci come i tedeschi avevano artiglierie sempre più potenti.

I tedeschi poi avevano un cannone che sparava proiettili enormi che quando scoppiano sollevano una vera ondata di terra. Si diceva che in una trincea francese un gruppo di soldati con i fucili pronti per l’assalto e con le baionette innestate era stato sepolto da una di queste ondate e tutti erano morti seppelliti con le baionette che spuntavano dalla terra. Si diceva anche che avevano costruito un cannone lunghissimo per sparare su Parigi.

Anche l’artiglieria italiana si era arricchita di un nuovo cannone che sparava fino a 20 chilometri ma i soldati continuavano a morire e anche a Pallanza quasi tutte le famiglie erano in lutto. Ormai si soffriva la fame perché tutto ciò che era commestibile andava al fronte per i soldati.

Ai primi di giugno tutte le scuole andarono sul Monte Rosso alle spalle di Pallanza a piantare i pini. Era la festa degli alberi. Anche il bambino piantò il suo pinetto in un piccolo buco già preparato e qualcuno venne a bagnarlo con l’acqua.

Il 15 giugno si chiusero le scuole e iniziarono le vacanze. In agosto il bambino con la mamma, i fratelli e la zia svizzera, venuta da Locarno, con la cugina e sua mamma andò in campagna a Santa Maria Maggiore in Val Vigezzo.

Presero il tram a Pallanza e arrivati alla stazione di Fondotoce salirono su un treno diretto a Domodossola. Il treno era quasi vuoto ma appena partito un carabiniere con il cappello grande coperto di tela grigia entrò nello scompartimento e abbassò le tendine «perché era zona militare» come disse e non si poteva guardar fuori.

A Domodossola scesi dal treno trovarono fuori dalla stazione un carrettiere uno sciaraban (carro piatto, lungo, con sponde) e 2 cavalli con due lunghe panche. Con quel mezzo salirono fino al paese di Santa Maria Maggiore dopo aver risalito la Valle Vigezzo e andarono in una villa fuori dal paese con molti letti.

Là trascorsero un mese divertendosi sul torrente che si chiamava Melezza e in un bosco di pini che si chiamava “la prandina”. In quel paese conobbero altri bambini della loro età e diventarono amici.

A scuola tutti erano stati promossi e il bambino doveva frequentare il 15 ottobre la quarta elementare.

In ottobre si ebbe notizia della rivoluzione russa. Le guerra continuava su tutti i fronti in Italia e in Francia ma le armi diventavano sempre più micidiali. I tedeschi avevano inventato un nuovo gas che uccideva in pochi minuti e in luglio aveva sterminato una intera divisione inglese di almeno 10.000 soldati quel gas che si chiamava iprite.

Sul fronte italiano il maggiore Baracca con il suo biplano aveva abbattuto più di cento aeroplani austriaci.

Il 15 ottobre erano ricominciate le scuole e il bambino era in quarta elementare. Il 28 giugno aveva compiuto 9 anni.

Il 24 ottobre lo zio avvocato che era andato a leggere il bollettino del comando supremo ritornò a casa disperato e con la notizia che gli austriaci con l’aiuto di alcune divisioni tedesche avevano sfondato il fronte italiano a Caporetto e stavano penetrando nel Veneto. La notizia piombò come un macigno nell’animo di tutti e gettò tutti nel terrore dell’invasione tedesca.

Tutte le sere dopo quella sera il bambino accompagnò lo zio avvocato a leggere il bollettino sotto il portico del Municipio. Pioveva e faceva freddo e una folla cupa ascoltava qualcuno che leggeva il bollettino. Il nemico stava invadendo il Veneto e inutili erano le cariche eroiche della nostra cavalleria. L’esercito era in rotta e la popolazione abbandonava i paesi e le città. Tutto veniva perduto, l’artiglieria, i depositi di viveri e munizioni. Neppure i carabinieri servivano a fermare i soldati che fuggivano. Le strade del veneto erano piene di cariaggi e profughi in mezzo ai paesi con i depositi militari in fiamme. Uno spaventoso disastro. A casa nessuno parlava, la scuola era chiusa.

Lo zio avvocato voleva andare a combattere volontario, pur essendo stato scartato alla visita di leva, e ci volle tutta l’insistenza della nonna e delle sorelle per farlo desistere. «Come faremo senza di te noi donne sole con i bambini?»

Finalmente i resti dell’esercito in ritirata ma ancora con le armi, passato il Piave e distrutti i ponti, si schierarono sulla riva destra e fronteggiarono il nemico. Il Piave era in piena perché continuava a piovere e questo impedì al nemico di gettare nuovi ponti di legno.

Continuavano ad arrivare i profughi dal Veneto a migliaia tutte donne e bambini. E anche a Pallanza ne giunsero centinaia. Il Comune fece subito preparare un quartiere di baracche nella piana di Renco alle spalle di Pallanza.

Ai primi di novembre il bambino andò con la mamma a visitare i profughi. Tutte donne e ragazze e bambini laceri e sporchi alloggiati in attesa delle baracche nella chiesa di Renco e nel cotonificio chiuso da tempo, in attesa delle baracche.

Il giorno dopo la mamma con la figlia del procuratore del re e la mamma dal dottore ritornarono a Renco portando un pacco di abiti da bambino e da donna.

Truppe francesi e inglesi e qualche americano vennero in aiuto alle truppe italiane. Per fortuna le grandi industrie di guerra liguri in previsione che la guerra continuasse per diversi anni aveva fabbricato e immagazzinato 6000 cannoni di tutti i calibri e poterono così rifornire l’esercito italiano.

L’inverno fermò le operazioni belliche sul fronte del Piave. Vennero chiamati alle armi i ragazzi di 18 anni e la guerra continuò sotto il comando del generale Armando Diaz.

Il 15 giugno il bambino fu promosso e il 18 compì i 10 anni. In quello stesso giorno all’alba l’esercito austriaco sorretto dalla vittoria dell’autunno sferrò l’offensiva con forze molto superiori a quelle italiane.

Almeno 10.000 cannoni di tutti i calibri aprirono il fuoco di distruzione sulle nostre linee ma pochi momenti dopo le nostre artiglierie che avevano già localizzato in precedenza con un nuovo sistema l’ubicazione delle batterie austriache aprirono un fuoco di controbatteria e in meno di mezz’ora ridusse al silenzio le bocche di fuoco nemiche.

Le truppe che avevano attraversato il Piave su molti ponti di legno gettati all’alba sotto la protezione dell’artiglieria. Restarono isolate sulla destra del Piave perché l’artiglieria italiana dopo aver ridotto al silenzio quella nemica distrusse i ponti impedendo l’afflusso di rinforzi e quindi concentrarono il fuoco sulle truppe rimaste isolate. L’offensiva fallì e fu l’ultima lanciata dall’esercito austriaco.

La vittoria dei giovani soldati italiani fu funestata dalla morte dell’eroe Francesco Baracca  abbattuto mentre mitragliava le truppe austriache rimaste isolate sul Montello. La gente riacquistò la fiducia e la speranza in tempi migliori. L’estate passò abbastanza tranquilla, soprattutto perché cominciava a delinearsi un indebolimento dell’impero austriaco.

Il 4 novembre il bambino era in casa della mamma con la nonna, fratelli e la cugina e lo zio avvocato con la zia. Alle 9 di sera si sentirono sul viale degli scoppi e delle urla. Lo zio scese di corsa in giardino per vedere cosa succedeva. Ritornò trafelato dopo pochi minuti gridando: «la guerra è finita. L’Austria ha chiesto l’armistizio. Abbiamo vinto».

Il bambino pensò al papà e alle centinaia di migliaia di soldati morti e scoppiò in un pianto dirotto.

Il fratello maggiore gli disse «Perché piangi, è festa, abbiamo vinto».

La mamma guardò il bambino e sorrise, aveva capito.

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Lille (sx) e Giovanni (dx) con l’uniforme del collegio Longone di Milano.

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PS: mio padre ha scritto queste note tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998 all’età di quasi 90 anni. Un paio di anni prima aveva iniziato la pratica legale per avere la possibilità di aggiungere il cognome Albasini al suo. Alla fine del 1998 il Ministero di Grazia e Giustizia ha comunicato l’accoglimento della richiesta visto che il cognome Albasini era altrimenti destinato a scomparire per assenza di eredi. I suoi figli (Tommaso, Marco e Corrado) e i nipoti (Claudia, Luisa e Sara) dal settembre 1999 si chiamano de Francesco Albasini. Non so se avrei fatto la richiesta fatta da mio padre. Ne capisco tuttavia le motivazioni morali, le rispetto e seguo la sua volontà. Se sei arrivato in fondo a queste pagine penso che tu sia d’accordo con lui.

Corrado de Francesco Albasini – Pallanza, ottobre 1999

Un commento

  1. Ciao Corrado, penso di essere assolutamente d’accordo, tuo padre ha fatto la cosa giusta.
    Giusta perchè ha salvato un pezzo di storia che altrimenti sarebbe per sempre finita.
    I nostri vecchi erano caparbi, risoluti e con tanto coraggio, ora avremmo mandato tutto in cambusa.
    La storia alla fine non cambia mai, gli esseri umani si.
    Forse perderemo le rimembranze del passato, ma vale pur sempre la pena provare.
    Un abbraccio
    r

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