è il titolo di un ennesimo articolo sulla crisi dell’università che La Stampa di oggi spara in prima pagina insieme ad una foto di professori in toga.

Tutto OK anche se lo stesso articolo di Michele Ainis (Atenei in tilt: senz’anima e senza soldi) avrei potuto leggerlo 20 anni fa: oggi come allora la nostra università si caratterizza per bassa produttività (pochi laureati e tanti abbandoni), bassa redditività delle lauree, assenza di meritocrazia e di controlli, ecc. Tutte cose cui avevo dedicato un libro nel 1985 (L’università incontrollata).
La sensazione di dejà vu mi ha preso anche leggendo il bell’articolo di Antonio Scurati “Non sperperate il sapere“:

Scurati ha proprio ragione e so di cosa parla: è da quella sensazione di disastro irreparabile che nasce il senso di infinita stanchezza con cui torno a casa dopo ogni calata a valle. D’altronde la stessa sensazione la vivevo già negli anni ’80 quando ero ricercatore a Milano. Ed era proprio per quel motivo che nel 1994 avevo poi dato le dimissioni. Temo che il bis sia vicino.
Premesso che sono assolutamente d’accordo con quanto detto nei precedenti articoli, anche io voglio dire la mia su certe sensazioni che ho provato recentemente al conseguimento dei miei studi triennali nell’ università di Reggio Emilia. Parlo di sensazioni di malessere e di assoluta tristezza provocate dal comportamento di alcuni professori (sottolineo alcuni. non tutti) che invece di seguire gli studenti nel loro percorso di realizzazione di tesi hanno preferito andare a fare viaggi all’estero di ricerca e non correggere nemmeno una parola di quelle tesi, per poi arrivare a firmare l’elaborato dicendo “No, ma comunque l’ho letto… è un buon lavoro!”. O professori che hanno preferito lasciare fare il loro lavoro agli studenti, chiedendo loro di compilare in 3° persona e a loro nome (come se fossero stati loro a scrivere) resoconti di stage o burocrazia varia per la laurea. La scarsità dell’università statale italiana non è causata solo da ragazzi che non sanno spiaccicare una parola in italiano, ma anche professori nullafacenti che sfruttano l’insegnamento come scusa per poter fare ricerca, e poi attuano comportamenti meschini e ignoranti come sopra descritti.
Io sono molto soddisfatta di me, della mia laurea e della specialistica che sto frequentando altrove, sono soddifatta di essermi laureata in tempo sacrificandomi spesso e volentieri, perchè questa è la vita. Ma dico anche, non continuiamo a lamentarci dei giovani d’oggi, in primo luogo perchè esistono persone come la sottoscritta e tanti altri studenti di Reggio Emilia validi, colti, curiosi e che nella vita faranno tanta strada; secondariamente, nessun bambino nasce cattivo, se lo diventa è perchè qualcuno glielo ha insegnato, pertanto invito tutti i cosiddetti “professori” che normalmente attuano i comportamenti sopra descritti a farsi un esame di coscienza, come professori, come genitori e come uomini, e poi valutare se REALMENTE noi appariamo a caso come la generazione dei nullafacenti, ignoranti e chi più ne ha più ne metta. Probabilmente quel marcio che ci portiamo appresso è genetico.
Ringrazio Cordef per averci sempre ricordato che realizzarsi ed essere qualcuno è difficile e richiede sacrificio, ma è possibile.
Anche se ora come ora sprechi e iniquità sono endemici, non è detto che debba essere così per sempre.
Non molliamo proprio adesso. Cerchiamo di farci eleggere nelle commissioni e promuoviamo i più bravi.
Soprattutto non facciamo perdere la speranza agli studenti.
Assolutamente in accordo con il post e con quello che dice il giornalista de “La stampa”.
Arriviamo all’università senza sapere parlare in pubblico e facciamo ancora errori di ortografia per esempio. L’università dovrebbe lavorare anche su questo.
L’università italiana rimane in piedi perchè ha docenti che si ammazzano di lavoro e lo fanno per passione, non certo per soldi. Se possiamo ancora studiare è grazie al loro impegno nel farci crescere.
Prof, non lasci di nuovo l’università, io sono convinto che di docenti come lei ce ne siano davvero pochi, ci pensi bene per favore.