è obbligatoria e la cosa mi consola anche se dà fastidio a chi la vorrebbe facoltativa: pensa che bello se anche i calcoli del cemento armato di casa tua fossero stati facoltativi.
Sulla questione della frequenza ai corsi e alle lezioni ti segnalo l’intervento del rettore del Politecnico di Torino prof. Francesco Profumo pubblicato su La Stampa del 23.07.2008 in risposta ad un articolo del giorno prima intitolato, con classico stile giornalistico estivo, “O ti licenzi, o salti l’esame“.
Comunque, niente paura, per le facoltà di massa (Sociologia, Scienze Politiche, Comunicazione, e simili) nessun rettore o preside ha intenzione di sollevare la questione della frequenza che rimarrà un optional come nei villaggi vacanze (→ post Quando la laurea è un pezzo di carta).
Provenendo da una facoltà dannatamente faticosa (Scienze della Terra, cinque anni col vecchio ordinamento), mi rendo conto che esistono corsi incompatibili con un lavoro 9-17.
E d’altra parte ho anche studiato per un anno all’Università di Londra, al Birkbeck College (http://www.bbk.ac.uk/), che gestisce solo corsi serali per studenti lavoratori.
E lo fa egregiamente.
Le lezioni si tengono dalle 18 alle 22 con corsi su base annuale o semestrale.
La frequenza è obbligatoria (mi pare ci siano un tot di ore di assenza ammissibile, dopo le quali si deve ripetere il corso l’anno successivo).
La biblioteca è aperta di notte e durante i weekend.
Le escursioni di terreno – per chi le fa – si tengono in occasione di ponti lunghi e nel periodo delle ferie.
I docenti ed il personale sono disponibili in orari “atipici”.
I datori di lavoro sono tenuti a concedere ore libere perché i dipendenti possano sostenere gli esami, che in UK sono solo scritti e concentrati in un’unica sessione – c’è gente che dà sette/nove esami in venti giorni.
Duro?
È durissimo.
Però funziona.
E funziona bene – la percentuale di abbandoni è bassissima e di solito legata a problemi gravi, ed il profilo dei laureati del Birkbeck è molto alto.
Quindi, io direi, aneddotica a parte – se esiste un bacino di persone motivate che se la sentono di affrontare il surplus di lavoro, perché non mettere loro a disposizione i mezzi per farlo?
Non dico aiutarli, ma per lo meno non ostacolarli – penso agli orari delle biblioteche ed alla reperibilità di (certi) docenti.
Il Poli a Torino (per citare una realtà che ho sulla porta di casa) potrebbe organizzare un esperimento pilota quasi a costo zero, e se venisse fatto bene, avrebbe certamente più successo dei corsi a distanza.
L’aneddotica serve poco. Il problema c’è: in facoltà serie e faticose si può lavorare e studiare insieme? Il Rettore del Politecnico di Torino dice “sì, ma con i corsi a distanza”. Io dico no per un fatto banale di workload: 60 CFU equivalgono a 1.500 ore. Un lavoro a tempo pieno di 40 ore settimanali equivale grosso modo a 1.800 ore. 1.800+1.500=3.300 ore (troppe per una persona sensata).
Senza intento polemico, considero i due articoli citati sono tendenziosi e disinformativi – uno estremizza un problema senza andarne a cercare le cause, ed è fasullo fin dal titolo, l’altro nega le premesse ma offre chiacchiere.
Non conosco il Politecnico, ma per ciò che riguarda l’Università degli Studi, e sulla base della mia esperienza personale, posso garantire che a Torino l’atteggiamento nei confronti degli studenti-lavoratori è sempre stato di discreta ostilità.
Dal docente che ti diceva “Ma lei ha già un lavoro, cosa vuol studiare a fare?” a quello che era irreperibile e non pubblicava le dated’esame, salvo comunicarle a voce in aula, “O ci siete o siete fuori”.
Ho studiato e lavorato per metà della mia degenere carriera universitaria, ed ho conosciuto persone che hanno lavorato per mantenersi agli studi per tutta la durata del loro curriculum.
Dalla maggior parte dei docenti, battute tante, aiuti scarsissimi.
Gli unici studenti-lvoratori ai quali filava tutto liscio erano quelli che facevano i galoppini negli studi professionali dei docenti.
E qui chiudo perché mi accorgo di essere diventato inutilmente acido.