Luca Ricolfi è un metodologo

diventato poi editorialista di La Stampa: un bravo e serio sociologo abituato a parlare solo se ha dati su cui basarsi. Il suo editoriale del 17 dicembre 2007 si intitola “Le nostre grandi paure” e prende lo spunto dall’ormai famoso articolo “Italy Sings an Aria of Disappointment” ( New York Times 13.12.2007). Te lo consiglio anche se non è una lettura piacevole. Alla fine del suo editoriale Ricolfi scrive:

la realtà è che ci vorranno anni per liberarci da questa classe dirigente, anni per tornare a recuperare il potere di acquisto perduto, anni per tornare a vivere in città più sicure. Molti italiani ormai l’hanno capito, altri se ne stanno rendendo conto dopo le illusioni e le ubriacature dell’ultimo decennio. Forse è anche questo che ci rende un po’ tristi, come ci dipinge il New York Times. Possiamo fare qualcosa? Sì, liberarci il più in fretta possibile di questo ceto politico…”.

Nel frattempo, c’è qualcosa che possiamo incominciare a fare nelle nostre care università? Tu cosa proponi?

Un commento

  1. Cosa fare per il nostro sistema universitario?
    Posso iniziare dagli aspetti forse più ovvi, ovvero è necessario migliorare il metodo di insegnamento e il metodo di studio, è indispensabile dunque un impegno sia da parte degli studenti sia da parte dei professori.

    Partendo dal metodo di insegnamento sicuramente andiamo a toccare
    1) il tipo di didattica: lo studente deve essere coinvolto, si deve (come ha ribadito più volte il professor Mercurio) emozionare (in senso lato) e deve essere anche stimolato a frequentare

    2) la frequenza non deve essere vista come un obbligo ma come l’occasione per imparare veramente qualcosa che senza frequentare non potremmo imparare allo stesso modo, non potremmo ricevere stimoli e saperi che riceviamo nello scambio con il professore e con gli altri studenti; frequentare dunque può significare avere un voto migliore di chi non frequenta ma non di certo per questioni di simpatia.

    3) I sillabi!! Di cui ho già discusso ampiamente… manca uno standard e mancano sempre le informazioni necessarie.

    4) Forse valorizzare i lavori migliori degli studenti può essere un’occasione per diffondere la conoscenza e far vedere cosa quel corso è in grado di insegnare.

    5) Gli esami e i voti: si scelgano anche qui metodi efficaci che magari vanno oltre all’esame tradizionale che spesso produce e valuta al massimo pappagalli che ripetono a memoria cose che dimenticheranno il giorno dopo.

    6) La motivazione: quanti professori sono davvero motivati a trasmetterci ciò che sanno e ciò che fanno con passione al di là dell’esame e del voto? E perché, a seconda dei casi, sono motivati o non lo sono?

    Per il metodo di studio, spesso mi sono chiesta quanti studenti effettivamente sanno studiare e se qualcuno ha mai provveduto a indirizzarci nel momento in cui si accorgeva che non sapevamo studiare e sono certa che non è un problema così raro il non saper studiare!
    Così ho digitato su Google “how to study” è si è aperto un mondo di cui non ero a conoscenza: a quanto pare didattica e metodo di studio sono aspetti molto legati tra di loro perché ad esempio stimolare al lavoro di gruppo in aula può essere anche di aiuto nello studio fuori dall’università.

    Sicuramente è di cruciale importanza che studenti e professori siano in grado di rispettare impegni ed orari: come non si accetta che un alunno entri ed esca a suo piacere dalla lezione e non faccia ciò che è richiesto a lezione, allo stesso modo è spiacevole quando il professore arriva in ritardo oppure non rispetta gli orari di ricevimento, non avvisa per tempo se ci sono cambiamenti nell’orario di lezione soprattutto quando si hanno a disposizione strumenti come Dolly a cui gli studenti posso accedere da casa (quando il server non dà i numeri).

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